6 agosto 2020
dalle ore 0.10 alle 0re 18,20…18 ore di marcia consecutiva.
Rifugio Gonella. Sveglia alle 23,30, abbiamo dormito tre ore, anche se in realtà sarebbe meglio dire che siamo rimasti coricati tre ore, perché di dormire non se ne parla. Siamo giunti quassù a quota tremila ieri pomeriggio e non abbiamo avuto il tempo e la tranquillità necessaria per riposare, ma questo lo sapevamo.
Alle 23,30 colazione, e un quarto d’ora dopo, preparazione del materiale, imbragatura, ramponi e legatura. Tutto si svolge in silenzio, ogni uno di noi sa cosa deve fare, gli unici rumori sono quelli dei moschettoni che tintinnano tra loro, e le pesanti pedate degli scarponi ramponati. Con le luci sul casco, iniziamo la scalata al gigante. Siamo in tre, Elisabetta, Stefano e Pietro. La prima parte è una traccia si sentiero che lambisce la costa rocciosa del canale del Dome, e pochi minuti dopo prendiamo contatto con il ghiaccio che ricopre il canale. Si sale zigzagando, cercando di leggere il terreno per evitare i crepacci coperti, e superando o girando intorno a quelli scoperti, dove solo pochi giorni fa vi era caduta un intera cordata. La pendenza del canale aumenta fino a raggiungere i 45 gradi e un costone di roccia verticale. Scaliamo la prima parte e arrampichiamo tra le rocce per almeno una mezz’ora, fino a giungere a ridosso di una strettissima cresta.
Si presenta il primo problema, il vento. Secondo le previsioni doveva essere quasi assente, invece si alza con molta forza, trasformando la traversata della cresta in un piccolo incubo. Siamo legati e camminiamo su un terreno largo pochi centimetri con il nulla a destra e il nulla a sinistra. Ci accucciamo e stiamo fermi, in attesa che la folata termini, poi felinamente ci muoviamo, per fermarci nuovamente nel momento in cui il vento ci colpisce. Dopo 20 minuti superiamo la crestina per immetterci su di un’altra cresta rocciosa che anticipa un’altra cresta ghiacciata.
Il vento molto forte è anche molto freddo, e stilettate di ghiaccio ci colpiscono ripetutamente il volto. In queste condizioni, dopo qualche ora raggiungiamo la base del Dome de Gouter 4.304 e a circa un’altra ora si intravede il bivacco Vallot, che decidiamo di raggiungere per rifocillarci. Intanto il vento gelido non ci ha abbandonato mai, anzi le sue raffiche sono molto più violente.
All’interno del bivacco, una scena drammatica. Una quindicina di persone, stremate, e con principi di ipotermia cerca di scaldarsi in qualche modo, alcuni dormono, altri escono fuori e vomitano. Ci sono ragazzi di molte nazionalità, olandesi, spagnoli, tedeschi, peruviani e qualche italiano. C’è anche una donna che lamenta un congelamento a un occhio. Molti di loro, riposano e torneranno indietro, rinunciando ad arrivare in vetta. Tra di questi uno lamenta che questo è il suo terzo tentativo e altrettanta rinuncia.
Intanto il vento aumenta, e guardandoci dobbiamo decidere. Sono il più anziano, e non sento la necessità di mettere in gioco la vita di altre due persone per soddisfare il mio ego, quindi optiamo anche noi per una rinuncia.
Usciti dal bivacco, incontriamo una cordata che scende, composta da tre giovani e ci dicono che lassù è brutta, ma che tentare si può.
In momenti come questi, la logica e la ragione si dissolvono nello stesso vento gelido che ci accompagna, e un semplice cenno di capo, ci rimette in marcia. Prima di inerpicarci sulle sottili creste, alcune raffiche ci spostano pericolosamente, ma anche questa volta non cediamo. Quei ramponi e quella picca si piantano nel ghiaccio spinte da una forza che ci nasce da dentro. Non una parola tra di noi, ma un intesa mentale che ci porta su all’unisono.
Poi un brivido mi prende la gola. Un’alba, la solita alba di tutti i giorni, ma da quassù è tutta un’altra cosa. Ci fermiamo senza sentire più gli schiaffi del vento, ma godiamo del nascere della luce.
La marcia riprende, la gola attraversata da aria ghiacciata duole, come duole il naso, ma respirare serve, quindi si sopporta. La diminuzione di ossigeno nell’aria, appesantisce le gambe, e intanto inizia a dolere anche il petto. Una cresta dopo l’altra e alla fine , lui è li. Gli ultimi passi diventano leggeri, come se il gigante ci concedesse la sua energia, e un urlo di gioia da parte di Stefano ci porta ad abbracciarci.
Sono piccoli cristalli di ghiaccio le lacrime che scendono sotto i miei occhiali. Per molti sarà incomprensibile tutto questo, ma solo chi ha le passioni nel sangue può capire quanta bellezza c’è nella fatica che si fa, e soprattutto nel mettere la propria vita in ballo. Per quanto, anche solo scrivendolo capisco siano assurde le mie parole, vi giuro che in quelle ore la vita vale la vetta.
Da quassù posso immaginare l’intera Europa ai miei piedi, ricoperta di una natura e di una bellezza unica.
Questa esperienza resterà indelebile sulla nostra pelle come il più bello dei tatuaggi e sarà lo stimolo per continuare a coltivare passioni che ci permettano di sentire la vita scorrere dentro di noi come fiumi straripanti.
Elisabetta, Stefano, Pietro.
17 marzo 2020 alle 9,00 circa del mattino, Pietro viene portato in ambulanza al centro covid di Albenga, con una polmonite, difficoltà respiratoria, febbre e altri sintomi. Lo sport per lui è sempre stato un pilastro importante della sua vita, ma non come competizione, ma come ricerca di se stesso, utilizzando la fatica e ricercando i propri limiti come fossero dei graal. Per questa ragione, non poteva accettare che un virus impazzito, che si era permesso di intaccare un polmone potesse mettere fine alla sua ricerca.Quattro mesi dopo, attraversa il ghiacciaio del Bianco dopo una settimana scala il Gran Paradiso e infine si guadagna il monte Bianco.
Un virus può colpire il nostro corpo, ma non deve mai piegare la nostra mente.